Capriccio e Utopia
1745. Giovanni Battista Piranesi dà alle stampe “le Carceri d’invenzione”: un’opera caratterizzata da uno status mitico talmente pervasivo da ispirare ancora oggi sia avanguardisti che artisti popolari. Opera di un visionario, “le Carceri” è un insieme di capricci: gioco d’invenzione virtuosistica; sfera e labirinto, certo, ma anche vortice e infinito. 1934. Konstantin Melnikov progetta il Narkomtiazhprom: disegno fanatico per la “piazza rossa” di Mosca. Il progetto è presentato con una grande prospettiva che rappresenta in primo piano un enorme portale circolare ispirato alla nona tavola delle “Carceri”. Non più soltanto gioco e capriccio, ma anche utopia. Questo progetto è una figurazione della complessità del secolo scorso, un’Architettura che mostra il desiderio di governare la politica, la tecnica e la cultura del ventesimo secolo e di farne prassi e teoria. 1988: Philip Johnson e Mark Wigley inaugurano a New York la mostra “Deconstructivist architecture”. Qui sono presentati i lavori dei giovani architetti della generazione formatasi alla scuola dei radicali, a loro volta alternativi e autonomisti. Questi progetti, ispirati a Melnikov e al costruttivismo russo, non sono più utopia, ma “sublime inutilità”: gioco formale. Tramite le forme del costruttivismo private dell’idealismo rivoluzionario, l’architettura torna al capriccio piranesiano. Oggi: l’utopia è diventata ou-topia. “L’utopia è finita”, così si dice. L’utopia non è più prefigurazione, né progetto tecnico-scientifico. Perdendo il suo carattere messianico, il progetto è solo forma: citazione in stile radicale e disegno di buon gusto. “L’utopia è ormai regressiva”? Forse. Se è vero però che l’utopista deve distruggere i vecchi idola tribus prima di costruire “la Nuova Atlantide”, allora l’Utopia potrebbe (forse) sviluppare nuovi capricci, a patto e a rischio, però, di fare tabula rasa.